18 Febbraio 2024: un aggiornamento da queste parti.

Nel 2021 sono rimasta disoccupata e con la pandemia la stessa sorte è capitata a molte altre donne.

Al netto del privilegio che vivo (non mi sono ritrovata senza un tetto sulla testa con mia figlia, ho una relazione sana con un uomo che mi rispetta, ho una situazione economica non milionaria ma stabile) perdere il lavoro non per propria scelta è un grande shock per chi non ha mai impostato i propri obiettivi di vita sull’essere “solo” madre e moglie.

Mi esprimo con le dovute virgolette perché non c’è giudizio nei confronti di una scelta diversa dalla mia, o nulla di sbagliato. Solo che se sei una femminista sin dai tempi del liceo, hai preso una laurea e un master e hai sempre apprezzato il tuo lavoro, allora la disoccupazione somiglia molto ad un limbo di identità.

Sono ancora una femminista se non lavoro più? Voglio tornare a lavorare come prima? E se no, che esempio sto dando alla figlia che mi guarda ogni giorno? E poi: chi sono io adesso, senza più il mio lavoro? Sono una disoccupata in cerca di impiego? O una casalinga modello serie tv? Tra tutte queste domande, negli interstizi tra pressioni sociali, crisi economica e femminismo pragmatico, c’ero io.

Così mi sono rimessa a studiare. Storia del femminismo, sin dall’ Unità, in Italia e nello specifico a Torino e in Piemonte. Parlo di figure di spicco come Noce, Malan, Noya e Mariani ma anche storie di semplicità quotidiana che difficilmente hanno raggiunto libri e giornali. Ho studiato la storia dei consultori autogestiti, della Casa delle Donne, dell’Intercategoriale sindacale. Mi sono rimessa a leggere testi cardine del movimento in tutto il Mondo: De Beauvoir, Wolf, Friedan, Solnit, fino a Penny, Eltahawy, Moran.

Adesso so che voglio fare questa cosa qua. Studiare le storie e farle conoscere a chi avrà voglia di seguirmi. E so che là fuori ci sono altre donne come me, che forse hanno voglia di parlarne e scoprire.

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