Cosa vorrei per tutti gli 8 di Marzo

Lei è una donna istruita, ha un lavoro, una normale famiglia come tante. È grintosa, intelligente, cerca di far quadrare tutto al meglio delle proprie possibilità. Eppure, la ascolto inveire contro le quote rosa e i premi che l’azienda per cui lavora ha deciso di affidare ad una percentuale di dipendenti donne ogni tot dipendenti uomini. Dice che secondo lei le quote rosa aprono le porte all’amichettismo e alle raccomandate messe lì a caso. Dice che è ingiusto dare premi alle persone solo perché donne. E io, allibita, non riesco a dire un bel niente.

Sono furiosa. Furiosa perché non ho saputo rispondere nulla. Furiosa perché troppe donne ancora non sono consapevoli di quanto, per sesso di nascita, educazione e contesto sociale, noi italiane nasciamo già appesantite. E quel peso non possiamo ignorarlo. Non lo vediamo? Quando, dopo 10 ore di lavoro, siamo ancora le uniche a dover fare lavoro di cura dei figli piccoli, cucinare, pulire, ricordare, organizzare, accompagnare. Non lo vediamo quel lavoro? Non vediamo che quel lavoro, quel peso, ci fa partire già 100 metri indietro ai blocchi di partenza del mercato del lavoro? Perché non riusciamo a darci il permesso di dire a voce alta che le quote rosa, in qualsiasi settore, riequilibrano (almeno in parte) il gap di genere e ci ripagano (ancora troppo poco) del lavoro gratuito sul quale si basano mercati, famiglie e carriere lavorative degli uomini? Dannazione, sono furiosa.

Tornata a casa, leggo una frase sul profilo Instagram della Libreria Nora Book & Coffee. Dice Anche il lavoro interiore è attivismo. Ecco. Io per tutte le donne, per tutti gli 8 Marzo da qui a per sempre voglio questo: il lavoro interiore, l’autocoscienza come amava definirla Carla Lonzi. Perché le manifestazioni e l’attivismo pubblico e politico sono fondamentali, ma se manca la sicurezza in noi stesse e la consapevolezza di ciò che portiamo al mercato e nelle famiglie allora si può manifestare finché si vuole ma mancano le basi. E da quelle bisogna ripartire, prima di subito.

Abbiamo il dovere e il diritto di palesare il nostro valore. Dobbiamo darci il permesso di essere delle vere bastarde, che si prendono quel che spetta loro senza preoccuparsi sempre di essere giuste, essere corrette, essere eque. Diventa necessario smettere di essere brave bambine, perché quel brave va a vantaggio di tutti tranne che di noi stesse. Importa a qualche collega là fuori di essere giusto nei nostri confronti? Sulle chat del calcetto secondo voi si parla di quella collega che meriterebbe tantissimo il premio di produzione? Sapete che le conquiste per i diritti delle donne sono frutto di battaglie, di donne che hanno lanciato sassi o sono state arrestate? Da quando in qua in Italia, Paese nel quale i fatti dimostrano che a nessuno importa un fico secco dei diritti delle donne, pensiamo sia utile attendere che qualche mente eccelsa dall’alto butti qualche briciola e un sorriso benevolo? Quel dannato premio di produzione ci spetta, anzi dovrebbe essere più cospicuo, frequente e allargato a tutte le impiegate. Dovrebbero baciarci le chiappe per tutto quel che facciamo ma noi no, noi dobbiamo essere giuste. Corrette. Eque.

Questo 8 Marzo lo passo incredula e furibonda.

Auguro a tutte noi autocoscienza, bastardaggine e soldi da farcisi il bagno in mezzo.

Femminismo a Torino – Giulia di Barolo

Nel cuore della Storia e della cultura italiane risiedono figure affascinanti, le cui vite sono intrecciate con le vicissitudini della nobiltà e dell’arte. Tra queste, spicca la figura della Marchesa Giulia di Barolo, un illustre esempio di eleganza, carità e impegno sociale nel Piemonte dell’Ottocento.

Nata il 27 Giugno 1785, Juliette Colbert di Maulévrier proveniva da una famiglia aristocratica di antica nobiltà. Fin dalla giovane età, dimostrò un profondo interesse per la cultura, l’arte e la filantropia, tratti che avrebbero caratterizzato l’intero corso della sua vita. Colbert sposò il Marchese Tancredi Falletti di Barolo nel 1806: la coppia, molto affiatata per i costumi dell’epoca, non solo consolidò il proprio patrimonio familiare ma si distinse anche per l’impegno verso il bene comune.

Uno dei contributi più duraturi della Marchesa Giulia di Barolo fu la sua dedizione alla promozione dell’istruzione e della cultura. Nel 1834, insieme al marito, fondò la Scuola Materna Tancredi e Giulia di Barolo, un’istituzione educativa innovativa per l’epoca, che offriva istruzione gratuita ai bambini poveri. Fu una fervente sostenitrice delle arti e della cultura piemontese, promuovendo artisti emergenti e sostenendo la conservazione del patrimonio culturale della regione. Il suo salotto letterario divenne un centro di incontro per intellettuali, artisti e politici dell’epoca, contribuendo così alla diffusione delle idee e all’avanzamento della cultura.

Ma forse ciò che più distingue Giulia di Barolo è il suo impegno per le opere di carità: fu una pioniera nel campo dell’assistenza sociale. L’evento decisivo che spinse la Marchesa ad avvicinarsi ai bisognosi risale al 1814, quando in via San Domenico vide passare la processione che portava la Comunione (Viatico) ad un ammalato e fu colpita dalle voci dei reclusi nei sotterranei delle carceri. Un piccolo episodio che ebbe per lei il valore di un segno da Dio (era profondamente religiosa) e la spinse ad intervenire chiedendo di entrare nella prigione. Le recluse non erano pericolose assassine ma prostitute e piccole criminali: Giulia chiese al Re di poterle visitare e di insegnare loro a leggere e scrivere, per studiare il catechismo e ritrovare la dignità. Grazie alla sua tenacia, Colbert ottenne dal Re l’incarico di Sovrintendente alle Carceri e fece trasferire nelle Torri Palatine, più salubri, le detenute.

  • Nel 1821 fondò, nel quartiere popolare torinese di Borgo Dora, una scuola per fanciulle povere.
  • Nel 1823 fondò, presso il quartiere Valdocco di Torino, l’Istituto del Rifugio, destinato alle ragazze madri.
  • Nel 1833, fece costruire accanto all’Istituto del Rifugio, il monastero delle Sorelle penitenti di Santa Maria Maddalena, che si era ampliato per accogliere anche le vittime della prostituzione minorile.
  • Nel 1847, fondò una scuola professionale presso il proprio palazzo per le ragazze di famiglia operaia; nel 1857 fondò anche una scuola di tessitura e ricamo.

Il suo lavoro caritatevole culminò nella fondazione dell’Ospedale di Santa Croce e Sant’Anna a Torino nel 1827, un istituto dedicato all’assistenza sanitaria dei poveri e degli indigenti. Questo ospedale, ancora in funzione, testimonia l’eredità duratura della sua dedizione.

In un’epoca in cui la nobiltà era spesso associata a un distacco dal mondo reale, la Marchesa Giulia di Barolo si distinse per il suo profondo coinvolgimento nelle questioni sociali e culturali del suo tempo, dimostrando che il vero femminismo – benché in quel momento storico fosse lungi dall’essere definito – risiede sempre nel mettere i propri privilegi al servizio delle donne che non li hanno.

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Ti senti meglio adesso?

Voglio dire, devi sentirti meglio.

Adesso Feragggni e Quell’Artro divorziano, hai visto? Te lo dicevo io. Ti senti meglio vero? Questa non è la tua storia, è la sua.

Per anni abbiamo osservato ogni passo di questa donna orribilmente magra, privilegiata e biondissima e adesso che quel passo lo ha mancato bum: tutto è tornato in ordine. Prima sì certo, tutto bene: spettatrici consapevoli di un Grande Fratello sempre acceso. Morbosamente incuriosite. Un caso studio, un esempio al quale guardare. Ci appartiene, ha scelto di essere proprietà pubblica non trovi? Però poi no, è troppo, è seccante diamine. Abbiamo deciso che è diventata troppo. Non sappiamo nemmeno bene in che senso: troppo lusso, troppa fama, troppi soldi, troppa fortuna? Forse. La giovane donna che si è inventata un’impresa senza neanche l’aiuto di qualche mafioso adesso cade in rovina per sua stessa colpa: la giustizia è ristabilita. La donna cattiva è stata punita. Ne avevamo il diritto. Presto diventerà una barzelletta, ci rideremo su: c’era una volta una banale truffatrice. La squallida imprenditrice che per il business butta nel tritacarne dei social persino i figli piccoli. Non si era mai visto prima, specie se si tratta di imprenditori, cantanti, attori maschi. Il controllo è stato ristabilito e la civiltà occidentale non è crollata.

Era solo questione di tempo. Eccola: una donna peggiore di noi. Questo sì che ci fa sentire meglio, stiamo meglio con noi stesse. Si può essere angeli o stronze: finalmente lei è tornata nella casella Stronze in cui era destinata a finire. La nostra insicurezza, la paura, la vergogna che la società patriarcale ci instilla: tutto finito, possiamo tirare un bel sospiro di sollievo. In fondo ogni donna ha qualcosa di sbagliato no? Basta solo cercare bene, basta trovare i segni della mutazione in lupe mannare. Basta correre sui binari, in attesa di vedere chi esce e deraglia rovinosamente. Ci sentivamo mediocri e ora è tutto a posto. I social sono terribili, noi certe cose non le penseremmo mai figuriamoci. Ci travestiamo da mostri solo ad Halloween ma in fondo siamo persone buone e generose. Sì, noi siamo meglio.

In fondo il piacere che proviamo nell’osservare la sofferenza altrui è normale, umano, no? Vomitare insulti su una perfetta sconosciuta è giusto. Ha colorato oltre i bordi, come si permette. Ha fatto cose che noi reputiamo sbagliate, e magari lo sono davvero: quindi era giusto che tornasse a bada. Si è ridimensionata, è tornata al nostro livello. Se hai tutto puoi perdere tutto all’improvviso, non lo sapevi? Non lo sapevi che le ragazze cattive prima o poi si fanno male? Non riusciva mai a tenersi i vestiti addosso: che vergogna, è una madre. Ma non era quello il motivo per cui la spiavamo dal cellulare 24 ore su 24? Sì ma no, adesso non va più bene. Adesso non è più un gioco: noi abbiamo il potere di toglierle quel che vogliamo. Ci divertiremo a insultarla e poi ci annoieremo, non ne avremo più bisogno: passeremo al prossimo idolo da osannare. Il prossimo capro espiatorio.

Quando una donna osserva abbastanza a lungo una trainwreck finisce quasi sempre per osservare sé stessa. Jude Ellison Sady Doyle, “Spezzate: perché ci piace quando le donne sbagliano”

Te la immagini una prefetta?

Quando leggo di scontri tra manifestanti e forze dell’ordine durante le manifestazioni di dissenso (qui c’è tutto ciò che ho da dire in merito) oppure delle risibili condanne applicate nei confronti di stupratori e autori di femminicidi, da femminista mi sorge sempre un pensiero che va oltre al normale schifo.

Da un po’ di tempo a questa parte mi chiedo: e se ci fossero state donne a decidere?

Mi spiego meglio. Cosa accadrebbe alla giustizia italiana e alle forze dell’ordine se i posti di lavoro che le costituiscono fossero occupati da tante, tantissime donne?
Mi chiedo (non ho risposta) se una squadra di sole donne avrebbe manganellato con la stessa brutalità.
E a salire: riusciamo ad immaginare prefette donne? Tante magistrate? Tante commissarie? Tante… pubbliche ministere? Non so neanche se sia una definizione corretta, non l’ho mai letta né sentita pronunciare e forse proprio qui sta il punto.

Vi immaginate i casi di violenza sui minori o stupro gestiti da interi ranghi composti da donne? Le condanne sarebbero più incisive, diverse?

È una questione di numeri?

Non ho una risposta.

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18 Febbraio 2024: un aggiornamento da queste parti.

Nel 2021 sono rimasta disoccupata e con la pandemia la stessa sorte è capitata a molte altre donne.

Al netto del privilegio che vivo (non mi sono ritrovata senza un tetto sulla testa con mia figlia, ho una relazione sana con un uomo che mi rispetta, ho una situazione economica non milionaria ma stabile) perdere il lavoro non per propria scelta è un grande shock per chi non ha mai impostato i propri obiettivi di vita sull’essere “solo” madre e moglie.

Mi esprimo con le dovute virgolette perché non c’è giudizio nei confronti di una scelta diversa dalla mia, o nulla di sbagliato. Solo che se sei una femminista sin dai tempi del liceo, hai preso una laurea e un master e hai sempre apprezzato il tuo lavoro, allora la disoccupazione somiglia molto ad un limbo di identità.

Sono ancora una femminista se non lavoro più? Voglio tornare a lavorare come prima? E se no, che esempio sto dando alla figlia che mi guarda ogni giorno? E poi: chi sono io adesso, senza più il mio lavoro? Sono una disoccupata in cerca di impiego? O una casalinga modello serie tv? Tra tutte queste domande, negli interstizi tra pressioni sociali, crisi economica e femminismo pragmatico, c’ero io.

Così mi sono rimessa a studiare. Storia del femminismo, sin dall’ Unità, in Italia e nello specifico a Torino e in Piemonte. Parlo di figure di spicco come Noce, Malan, Noya e Mariani ma anche storie di semplicità quotidiana che difficilmente hanno raggiunto libri e giornali. Ho studiato la storia dei consultori autogestiti, della Casa delle Donne, dell’Intercategoriale sindacale. Mi sono rimessa a leggere testi cardine del movimento in tutto il Mondo: De Beauvoir, Wolf, Friedan, Solnit, fino a Penny, Eltahawy, Moran.

Adesso so che voglio fare questa cosa qua. Studiare le storie e farle conoscere a chi avrà voglia di seguirmi. E so che là fuori ci sono altre donne come me, che forse hanno voglia di parlarne e scoprire.

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Ho letto Carla Lonzi: ecco cosa mi ha colpita di più.

La casa editrice La Tartaruga ha rimesso sul mercato “Sputiamo su Hegel – e altri scritti” di Carla Lonzi, dopo una lunga assenza dalla stampa.

La mia generazione di femministe è abituata a parlare di temi quali sessualità, attivismo e libertà di scelta sul proprio corpo, ed è stato splendido ripercorrere a ritroso la marcia che ci ha condotte sin qui, a oggi. Alcune osservazioni, in particolare, hanno preso casa nella mia testa.

Le donne stesse accettano di considerarsi “seconde” se chi le convince sembra loro meritare la stima del genere umano: Marx, Lenin, Freud e tutti gli altri.

Le donne sono persuase fin dall’infanzia a non prendere decisioni e a dipendere da persona “capace” o “responsabile”.

Chi genera non ha la facoltà di attribuire ai figli il proprio nome: il diritto della donna è stato ambito da altri di cui è diventato il privilegio.

La dialettica servo-padrone è una regolazione di conti tra collettivi di uomini.

La parità di retribuzione è un nostro diritto, ma la nostra oppressione è un’altra cosa. Ci basta la parità salariale quando abbiamo già sulle spalle ore di lavoro domestico?

Non salterà il Mondo se l’uomo non avrà più l’equilibrio psicologico basato sulla nostra sottomissione.

La donna clitoridea, affermando una sessualità in proprio il cui funzionamento non coincide con la stimolazione del pene, abbandona il pene a sé stesso.

L’interdizione all’autoerotismo ha colpito duramente la donna perché l’ha consegnata inesperta e colpevolizzata al mito dell’orgasmo vaginale che per lei è diventato “il sesso”.

Ecco sono sicura che leggendo queste parole a ciascuna sarà venuto in mente almeno un episodio. Se non due o più. Questa è la prima caratteristica di un libro intramontabile: irradia luce a prescindere dall’era in cui viene letto.

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Avete presente quando leggete una quote di qualche scrittrice, o di un personaggio storico? Provate come un senso di appagamento, perché in quella citazione da poche parole è riassunto efficacemente un concetto complesso. Nonostante le due tre righe, il sentimento che suscitano è sviluppato, profondo, potente.

Ecco: leggere “Il mito della bellezza” di Naomi Wolf è proprio questo. 291 pagine di parole cesellate come fa un’artista, andando senza mezzi termini alla radice dei concetti. Alcune/i definiscono Wolf brutale, io preferisco pensare che non sbrodolare sia un preciso intento politico.

Leggere what would be masochism in a man has meant survival for a woman (ciò che per un uomo sarebbe masochismo è sopravvivenza per una donna) ti srotola lì di fronte agli occhi tanto. Tutto. Il Capitolo intitolato “Violenza” è un capolavoro di ricerca e narrazione.

Gli anni di dolorose cerette all’inguine anche in pieno inverno, le violenze ostetriche, la grassofobia. Tutto lì, a pochi centimetri dalla nostra faccia. Questa per me è vera potenza, fuoco vivo che non ha bisogno di altri accessori.

Una fissazione culturale per la magrezza femminile non è un’ossessione per la bellezza, è un’ossessione per l’obbedienza.

Capitolo “Fame”

La definizione di bello e sexy cambia costantemente per servire un ordine sociale.

Capitolo “Sesso”

E il capitolo sul tema religione, mamma mia. Per me il vero must di questo libro, al contempo inquietante e attualissimo, nonostante “Il mito della bellezza” sia stato pubblicato per la prima volta nel 1990.

C’è tutto: il nostro cuore, le nostre paure, i sacrifici, i sensi di colpa, il sentirci sempre giudicate sotto un microscopio. I silenzi, la pornografia, gli orgasmi mai arrivati e finti. Le mestruazioni. La masturbazione. La maternità. C’è tutto quanto ogni ragazzina al Mondo dovrebbe sapere, per costruire qualcosa di sé che prenda una strada divergente.

Da dove cominciare? Dall’essere senza vergogna. Dall’essere avide. Ricercare il piacere. Evitare il dolore. Indossare e toccare e mangiare e bere ciò che ci pare. Tollerare le scelte di altre donne. Ricercare il sesso che vogliamo e combattere fieramente contro il sesso che non vogliamo. Scegliere le nostre battaglie. (…) Cantare quella bellezza e ostentarla e mostrarla: nella politica della sensualità, il femminile è bellissimo. Una definizione di bellezza che ama le donne soppianta la disperazione con il gioco, il narcisismo con l’amor proprio, lo smembramento con la completezza, l’immobilità con l’azione. (…) La prossima fase del nostro movimento come donne, da sole e insieme ad altre, (…) dipende oggi da quel che decidiamo di vedere quando guardiamo lo specchio. Cosa vedremo?

Capitolo “Beyond the beauty mith”

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Leggere “Il femminismo è per tutti” di bell hooks è stato fondamentale per la mia formazione di attivista, madre e professionista.

In questo libro, i percorsi di autocoscienza – peraltro già noti in Italia sin dai tempi dei Mitici Anni ’70 ad opera di figure cardine come Carla Lonzi – sono la base di un percorso di ripensamento della propria situazione famigliare e lavorativa in un’ottica di parità di genere. Si parte sempre da sé stesse per scardinare gli elementi di sessismo che abbiamo interiorizzato fin da quando eravamo piccole. Non ne abbiamo alcuna colpa. Oggi quei tratti li portiamo avanti senza nemmeno realizzarlo, e potremmo trasmetterli senza volerlo all’educazione di bambine e bambini.

Condivido con voi gli appunti su me stessa: sentitevi libere/i di condividere i vostri.

QUI PUOI SCARICARE LA MIA CHECKLIST, GIÀ PRONTA DA STAMPARE E ARRICCHIRE.

Usa il tuo cognome. Anche se sei sposata, usa il tuo cognome. E dallo alle tue figlie/i: si può fare.

Prendi spazio in casa. Non stare tanto tempo in cucina. Non sistemare la seconda televisione sfigata in cucina mentre quella faiga sta in salotto, e la guarda solo tuo marito per il calcio. Troppe volte, anche nelle nuove generazioni, si nota come a fine pasto le donne si alzino per sparecchiare mentre gli uomini si godono l’amaro. Bevi il dannato limoncello da seduta. O – meglio – bevilo mentre fai sparecchiare il tuo compagno/marito.

Se puoi, creati uno spazio tutto per te con una serratura per chiuderlo. Se non puoi, rivendica gli spazi della casa: il divano, il salotto. Il telecomando. Prendi il dannato telecomando e decidi tu cosa guardare la sera con la tua famiglia.

A parità di mansione, investi in una donna. Scegli dottoresse, avvocatesse, negozi gestiti da donne. E nel caso delle ginecologhe, controlla che non siano obiettrici: puoi farlo sulla mappa di Obiezione Respinta.

Alle feste di Natale o di compleanno, regala alternative femminili: libri, soprattutto.

Non commentare mai, per nessuna ragione, il corpo di un’altra donna. Neanche se va a Sanremo. Neanche se secondo il tuo personalissimo giudizio non è in salute. Non. Commentare. Mai. Un. Corpo. E già che ci sei, parti dal non giudicare male il tuo, di fisico.

Vuoi fare qualcosa? Vai al cinema da sola o prenota per una al ristorante. Vai da sola. Viaggia da sola.

Nota quando dici le parole scusa, disturbo, nel mio piccolo, pazienza. Nota a chi e quando dici queste parole. Nota quanto spesso le dici.

Vota. Sempre. A livello nazionale fino a quello locale e di quartiere. Dalla Sindaca/o alla/al rappresentante di classe.

Scegli. Anche al supermercato, anche la marca del sugo di pomodoro.

Non accettare subito un “no” (a meno che si tratti di rapporti con altre persone, situazioni nelle quali vanno rispettati e basta). Se puoi, trova altre strade. Trova altri modi per arrivarci.

Partecipa alle riunioni di condominio. Polemizza in modo costruttivo.

Al lavoro, presentati senza blocco note o penna e rifiutati di prendere gli appunti per tutte/i. Siediti davanti, al tavolo.

A meno che la situazione non lo richieda espressamente, usa un tono di voce alto. Alza la mano. Alzati in piedi.

Conta i soldi. Parla di soldi. Soprattutto alle tue figlie/i. Investi in banca e insegna alle tue figlie/i ad investire i primi stipendi.

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Femminismo a Torino – La Casa delle Donne: una storia di sindacato, di denti e di voci.

casa delle donne torino
Manifesto realizzato da Laura Fiori

Mi sono ritrovata spesso a riflettere su cosa è casa, e questa intervista me ne ha fatto ricordare il significato più profondo: accoglienza, educazione, strumenti, dialogo.

La Casa delle Donne di Torino risponde ancora oggi a domande che le donne in difficoltà si pongono, spesso senza trovare risposta nelle istituzioni.

Mi sento in pericolo nella mia relazione, quali strumenti ho per liberarmi?

Vedo intorno a me ingiustizie verso le donne della mia famiglia, come posso aiutarle?

Voglio interrompere una gravidanza ma non so come farlo in sicurezza, quali sono i miei diritti?

Mara: Come nasce questo spazio, che ricordiamolo è in Via Vanchiglia 3 a Torino?

Patrizia Celotto: Il 24 Marzo 1979 cominciammo l’occupazione del manicomio di Via Giulio, durò 1 anno. Da allora l’ amministrazione comunale ci concesse questo spazio, in via Vanchiglia, grande e accogliente per tutte le attività in programma, nel quale nel 2016 siamo fortunatamente ritornate con la Federazione Laadan, dopo una parentesi di trent’anni nei quali la Casa delle Donne “abitò”, nello stesso palazzo, in spazi molto più piccoli. Nel 2020 è nata anche da qui la rete +di194voci.

Purtroppo non è sempre stato così facile. La Casa delle Donne è un luogo di storie che partono dal passato, dai gloriosi anni ’70 delle conquiste femministe in Italia. Un femminismo che a Torino è stato da un lato radicale, con i gruppi autonomi dell’autocoscienza, dall’altro – ovviamente vista la storia del territorio – sindacale e politico.

È una storia di sindacati, di dibattiti e sì, anche di politica. Una storia che andrebbe insegnata in tutti i licei e istituti tecnici. Una storia che, ad esempio, parte da un bel po’ di denti sanissimi e da un grande barattolo portato ad una riunione sindacale.

Carla Quaglino: Avevamo ottenuto da 15 giorni la Legge di Parità, parliamo del 1977. Abbiamo aspettato il primo giorno dopo la pubblicazione delle Legge, alle 7 del mattino in migliaia abbiamo riempito il cortile dell’Ufficio di Collocamento e abbiamo comunicato al Direttore che avremmo occupato l’edificio fino a quando non fossero state unificate le liste di disoccupazione, allora divise fra uomini e donne. Questo espediente forniva alle aziende un ottimo modo per discriminare le lavoratrici, perché era prassi chiedere avviamenti di soli uomini. L’Ufficio di Collocamento accettò di unificare le liste e le donne occuparono tutta la testa dell’ormai unica lista. Quel giorno stesso, si presentò subito l’occasione per sperimentare la novità: la FIAT aveva richiesto i nominativi di 300 persone. La lista unica era diventata tutta femminile, quindi agli uffici FIAT in Via Chiabrera si presentarono 300 lavoratrici, pronte per la consueta visita medica alla quale erano sottoposti tutti/e. Ci accorgemmo che qualcosa però non andava, queste lavoratrici venivano sistematicamente scartate per inabilità: l’azienda stava usando il pretesto di fantomatici denti guasti che avrebbero pregiudicato la produttività di queste donne. Immediatamente distribuimmo un volantino: “Le donne non sono cavalli”.

E quando si parla di aborto e Legge 194 la situazione diventa ancor più drammatica.

Carla Quaglino: I sindacati (Cgil e Uil) facevano assemblee nei luoghi di lavoro sul referendum per abrogare la Legge 194. C’erano rappresentanti della Casa delle Donne, dell’Intercategoriale Donne CGIL CISL e UIL, e rappresentanti del PC, del PSI e del Partito Radicale. Il “contraddittorio”, avveniva con i democristiani e il neonato Movimento per la vita. I conservatori e le conservatrici si presentavano con grossi barattoli di vetro contenenti feti in formalina, simili a quelli che si possono vedere al Museo Lombroso per capirci. Facevo tutta la riunione con questo spettacolo raccapricciante appoggiato al tavolo a fianco a me.

Mara: Restiamo sul tema aborto. La mia generazione di femministe chiede un ripensamento totale della Legge 194, di fatto ostaggio dell’obiezione di coscienza. Qual è la vostra opinione in merito?

Patrizia Celotto: Al tempo dell’approvazione della 194, si pensò che noi femministe avremmo mantenuto il controllo sui consultori con la nostra presenza, come nei consultori autogestiti: invece ha dilagato l’obiezione di coscienza e il movimento degli anti-abortisti è entrato nei consultori, favorito da provvedimenti come l’attuale Fondo Vita Nascente. Purtroppo, dal 1978 a oggi non si è mai potuta migliorare questa Legge, perché fin dalla sua emanazione è stato messo in discussione il principio fondamentale su cui si basa, il diritto di autodeterminazione di noi donne, diritto che abbiamo sempre dovuto difendere. Allora, con la Legge 194, abbiamo dovuto trovare un compromesso che salvasse vite di donne come noi, perché l’IVG fosse sicura e gratuita: in quegli anni si abortiva a migliaia in clandestinità, rischiando tutto su tavoli da cucina. Chi poteva permetterselo andava in Svizzera o in Inghilterra.

Carla Quaglino: La DC aveva al suo interno donne che erano disponibili a contrattare e con le quali era indispensabile trovare un compromesso: mi riferisco a Tina Anselmi e ad altre. Col senno di poi ci viene da dire che sarebbe stato opportuno fissare un termine all’esercizio dell’obiezione di coscienza. Oggi, per esempio, vincolerei con chiarezza l’obbligo di fornire IVG a chiunque si iscriva a ginecologia.

Mara: Veniamo alla situazione IVG in Piemonte, con la decisione di Marrone di destinare una valanga di soldi alle associazioni anti-abortiste attraverso Vita Nascente. Cosa farà la Casa delle Donne?

Carla Quaglino: Insieme alla Rete +di194voci chiederemo l’accesso agli atti per capire chi ha richiesto i finanziamenti del fondo. Poi faremo un monitoraggio di come saranno spesi i fondi stanziati. Non escludiamo l’intervento legale delle nostre avvocate.

A proposito delle compagne femministe torinesi Celotto scherza affettuosamente eravamo delle scappate di casa. E forse il senso sta proprio tutto qui: scappare da una casa nella quale le donne ci stanno con sofferenza, per costruirne una nuova. Una Casa delle Donne.

Per approfondire:

Il Sindacato di Eva

La spina all’occhiello

Atti del Convegno “Produrre e Riprodurre”

Archivio delle Donne in Piemonte

Zerowaste e femminismo: due anime conciliabili?

Ve lo dico subito: per me la risposta è no. Non fraintendetemi: resterò sempre convinta che ridurre il nostro impatto ambientale sia una buona prassi, per la vita e per il portafogli. Ma.

La maggior parte delle pratiche zerowaste coinvolge le donne. E non per aiutarle. Mi piacerebbe che le guru zerowaste (le più note sono donne) usassero la propria voce per rivendicare politiche di distribuzione dei doveri ambientali che coinvolgano da vicino multinazionali e governi, responsabili da soli di moltissime emissioni nocive e sprechi colossali. Mi piacerebbe vederle organizzare manifestazioni, e stare lì in prima fila con i loro bei cartelloni, a metterci la faccia di fronte alle forze dell’ordine schierate. Mi piacerebbe vedere che si fanno portavoce di iniziative internazionali, sapete quelle con tanto di discorsi pubblici e articoli di giornale in cui si chiede a McMaretta un impegno concreto nel riconvertire tutti i contenitori in plastica entro il duemilaventisubito.

Mi piacerebbe ma non è così. Al contrario, il movimento zerowaste è principalmente concentrato sullo sforzo della singola persona e sulle sue abitudini, che devono cambiare per trainare altre/i e cambiare il Mondo. Sul serio ci crediamo Batman? Sul serio mi state dicendo che se 1 milione di persone smette di comprare lo yogurt in vasetto di plastica allora va tutto bene?

E infatti tutto bene non va. Nel suo libro – un cult per il movimento – “Zero rifiuti in casa. 100 astuzie per alleggerirsi la vita e risparmiare”, l’esperta Bea Johnson elenca ciò che chiunque si sia mai avvicinato allo zerowaste conosce a menadito: risparmiare, riutilizzare, ridurre, riciclare, rifiutare. Ma di preciso cosa ci viene detto che dobbiamo “risparmiare, riutilizzare, ridurre, riciclare e rifiutare” per “alleggerire”? Prodotti di vita quotidiana che coinvolgono da vicino principalmente l’universo femminile.

Esempi? Una marea. Detersivi fatti in casa (da una donna – e hai voglia a grattugiare il sapone di marsiglia, sì l’ho fatto), prodotti alla spina (comprati, non certamente con risparmio, da una donna), assorbenti lavabili (da una donna), coppette da sostituire agli assorbenti esterni ed interni (con apprendimento a cura della donna in questione). Pannolini lavabili (da una madre). Cucina mi raccomando varia e vegetale (se diventassi vegana meglio, ma va beh ti perdoniamo solo perché siamo magnanime) però solo verdura e frutta del mercato di stagione biologica certificata e portandoti da casa la sportina in stoffa. Carne e pesce idem. Formaggi e yogurt neanche a parlarne. Pausa pranzo rigorosamente in baracchino, preparata (da una donna) a casa.

Come come? Lavori 8 ore al giorno, hai 2 figli in età scolare e il c***o di mercato c’è solo al mattino quindi non ci puoi andare? MALE. Molto male. Non ci credi abbastanza, non ci stai provando bene. Se volessi davvero, tutto è possibile. Guarda la Johnson: lei ha due figli ormai adolescenti ma suggerisce a te di non metterli proprio i pannolini ai pargoli, ché la Eliminazione Comunicazione si sa è praticissima per una mamma, visto che è solo una mucca e una lavandaia. Per fortuna ancora nessuna è arrivata a dire che le badanti che si occupano dei nostri anziani/e dovrebbero usare pannoloni da adulti lavabili: si vedrebbe troppo bene quanto classiste e maschiliste siano idee del genere.

E poi via. Tagliare. Minimalismo. Via tutto quel che riguarda, di nuovo casualmente, l’universo femminile della bellezza: cioè mi viene detto dalla società in cui sono immersa fino al collo che devo essere “presentabile” e “bella” ma poi qui mi si dice che la manicure no, la tinta se non è henné naturalissimo no, la lametta no a meno che non sia in metallo (scivolosa, costosa e taglientissima, per chi non l’avesse mai provata – io sì), ceretta no, il reggiseno no anche se poi devo andare in ufficio e non mi sento a mio agio. Come dentifricio una bella spruzzata di bicarbonato: se la dentista ti dice che è un filino aggressivo è solo una sporca venduta alle BigggFarma.

Spulciando il blog della giovane guru di turno troverai 470 suggerimenti di bellezza zero-sprechi. Foto patinate bellissime, tanta luce naturale, verdi brillanti. Poi ti accorgerai che si tratta di una 30enne senza imperfezioni sul viso, senza problemi di acne né cicatrici né capelli bianchi, con un corpo magrissimo e super ultra conforme ai canoni di bellezza moderna. E d’un tratto sentirai quel sottile, impercettibile sex toy abilista in legno (sì, devi sostituire anche quello cosa credevi sporcacciona) che ti prende per il c**o.

Sui preservativi meglio che non mi esprimo come vorrei o mi denunciano. Perché se io leggo che siccome sono di plastica i preservativi meglio non usarli, che i “rimedi naturali” sono “meglio per te e per l’ambiente”, che è meglio prendere la pillola (scaricando di nuovo ogni onere sulle spalle di una donna) SBROCCO MALAMENTE.

Tutto questo suona giusto? Non hai ancora visto niente. Aspetta di trovarti in un negozio dell’usato per scegliere l’abbigliamento per i tuoi figli/e. Ah non c’è la misura? MALE. La città è piena di negozi second hand e tu non trovi il grembiulino verde a quadretti che chiede la scuola materna? Mettiti a cercare, e muoviti in bus anche se vieni da Frabosa Soprana con le sportine di stoffa mi raccomando: se no riparti dal via col +1 sul senso di colpa. E poi c’è il Natale, ORRORE DEGLI ORRORI: come diavolo farai a trovare il camper di Barbie usato? E le dannate piste delle Hot Wheels ce le avranno? Inutile cercare tra i consueti post della guru: lei figli/e non ne ha e vive a New York o in California, povera sfigata che non sei altro.

Bon, quest’anno Babbo Natale risolve facile. Un contenitore in vetro. Vuoto. Perché le brave bambine imparano il minimalismo sin da piccole. E via a salvare il Mondo, proprio come Batman, ancora solitarie e cariche, di responsabilità più che di regali.

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