Chi scrive

scrittura storytelling torino social mediaChi scrive non lo fa perché gli viene facile.
Chi scrive ama farlo nonostante quel giorno avrebbe di meglio da fare, vorrebbe pomiciare col fidanzato, dovrebbe stirare o ancor meglio dormire un po’.
Ma questi non sono che condizionali mentre scrivere, mano a mano che lo fai, diventa un imperativo categorico.

Chi scrive per professione e per passione non pensa che il vero genio sia colui che scrive due o tre parole su un fazzoletto prestato al bar e da lì nasce un capolavoro.
Chi scrive pensa che il vero genio sia chi riedita, rimuove, rimpasta, rivede i concetti perché siano intelligenti, semplici e trasmettano qualcosa.
Un’emozione, un’incazzatura, un mito da sfatare, un’idea. Quello è l’obiettivo, e non il genio sregolato ché quello esiste solo nell’immaginario collettivo.

Chi scrive sa che potrebbe scatenare reazioni contrarie a quelle che intendeva suscitare nel lettore. Ma non importa, se ne assumerà le responsabilità.

Chi scrive trova sempre il tempo per farlo.
Non perché gli viene facile ma perché in ogni momento, quando gli accade qualcosa di speciale, unico, particolare, nella sua mente compare nitidissimo il pensiero datemi un foglietto qualsiasi o lo smartphone: ho bisogno di ricordare, voglio mettere nero su bianco o su Evernote.
Il pensiero genera scrittura e la scrittura genera altri pensieri, in un circolo virtuoso e vizioso al tempo stesso.
Sì ecco, scrivere è un vizio, un vezzo del quale ad un certo punto non si potrà più fare a meno.

Scrivere diventa compagno di vita quando non sai con chi altro parlare.
Scrivere diventa un patetico ma inevitabile strumento di conversione dei tuoi pensieri in azioni concrete. Dovresti pensare meno e agire di più ma niente, la parola scritta è il tramite obbligato per lasciare che le gambe si muovano e sbloccare finalmente braccia, cuore, voce.

E quando ti rendi conto di cosa hai scritto un po’ ti sorprendi di averlo prodotto tu, sbattendo con le dita su quei tasti.
Non c’è soluzione.
Chi scrive non lo fa perché gli viene facile.
Lo fa perché scrivere è come fare l’amore: più lo fai, più vorresti continuare a farlo.

Il giorno perfetto: favola urbana felice

happy blogger copywriter social media torinoSe sto parlando del mio matrimonio? No, non proprio.

Il giorno che definisco perfetto, almeno per ora considerando che non sono sposata, è quel giorno magico nel quale tutto va come avresti desiderato nei sogni migliori.
Quelli vividi e colorati, nei quali ti svegli e il caffè è già pronto e il latte caldo e il pc acceso e su Facebook il tuo lavoro procede bene e ti arriva una email da un cliente soddisfatto e poi a pranzo mangi qualcosa di squisito e poi hai il pomeriggio libero e poi la sera il tuo fidanzato torna a casa dal lavoro con dei fiori.

Ma questa volta c’è di più.

La giornata che vi racconto oltre ad avere molte delle caratteristiche che vi dicevo sopra è stata perfetta nei piccoli dettagli. Scaglie di luce positiva si sono incastrate alla perfezione tra gli impegni della quotidianità, come in un puzzle riuscito che appendi al muro.

Tutto comincia così.

Sveglia alla solita ora, pimpante (oddio ehm… diciamo riposata e ciabattata che è più realistico) mi dirigo verso la macchinetta del caffè e prendo la tazza, la tazzona gigante che mi fa compagnia quando cerco di snodare matasse di casini raggrumati.
Poi un pensiero mi sfiora la mente galoppando e poi sparendo: Che fai? Oggi colazione da Vergnano, c’è un amico da incontrare.
E questo è proprio quell’amico lì: di talento, lavora nel tuo settore e ha un’idea da proporti a proposito di una rubrica.
Tu penserai: una rubrica che desidera sul tuo blog, una rubrica che qualcuno tiene ma che ha bisogno di un editing. Invece no, è proprio come nei sogni più vividi. La rubrica è tua, tua come lo sono i tasti coi quali la scriverai, proprio tua come quella tazzona di caffè la mattina.

Dopo aver discusso i dettagli saluti l’amico e sorridendo da sola come un’ebete percorri via Lagrange. I passanti ti guardano come se fossi un chihuahua fucsia alto 1 metro al garrese ma non te ne importa, tu trotterelli con la tua paresi facciale fino alla destinazione seguente.
Una destinazione che ricorda imprese di fatica come quelle di Pantani. Una di quelle per le quali molti hanno perso la vita. La destinazione che ti mette alla prova, ti fa sudare come in palestra, ti arrovella il cervello.

La scelta di un regalo di battesimo. Da Thun.

Ora esistono molte categorie di negozi a questo Mondo nei quali una ragazza entra sicura di sè. Sono negozi dalle vetrine scintillanti piene di scarpe che implorano di essere liberate e di finire nei tuoi piedi, librerie zeppe di offerte 25%, luoghi di culto recanti mela morsicata. La Thun no, la Thun è un posto diverso. Profuma di bambino e di serenità, i colori tenui trasmettono gioia, c’è la musica classica in sottofondo e… e niente perché la tua mente si appanna tra le ottocento opzioni comprendenti lune, stelle, babaciu, orsetti, fiori. Ti viene sonno. Inizi inesorabilmente a sudare.

Fatto sta che entro e la commessa, avvezza all’habitat, individua subito questa intrusa che non sa niente di battesimi, non avendo figli né cuginetti piccoli, e vaga spaesata pensando tra sé e sé va beh troppe robe dai come faccio.
A quel punto accade che la commessa con tono imperioso prende in mano la situazione e indica uno stanzino a fondo negozio.
Eccallà, è finita ora andiamo in magazzino e ciao proprio resto qua fino a chiusura.

Invece no.

In un attimo lo stanzino è super ordinato, catalogato per colore e tema e la commessa parte con le domande di orientamento: Maschio o femmina? Come si chiama? Colori preferiti della mamma? Oggetti che invece la mamma odia? Sospetto che questa categoria di lavoratori venga addestrata alla CIA.
Tutto si svolge in un attimo. Commessa estrae un soprammobile beigiolino con un disegno rosa e tu ti senti sollevata. O forse no. Potrò mai regalare un ciapapuer? Ma no, cavolo.
Ma accade di nuovo: una squama di perfezione fa tac e si incastra perfetta.
Non è un soprammobile, stolta che non sei altro.
È un carillon.
Gira dolcemente, ha la musica perfetta, costa il giusto ma non troppo. Daje tutta.

Tronfia per l’impresa titanica appena portata a termine, esci dal negozio sentendo nella tua testa la colonna sonora del Gladiatore. Sorelle!! Scatenate l’inferno!! Tocca andare affà la spesa al supermercato.
Ti avvii verso la fermata del bus e con la coda dell’occhio ti accorgi che sta già arrivando, splendido.
Acchiappi il mezzo e trovi subito posto a sedere. Ce li avete presente i posti grandi nei pullman nuovi? Quelli che sembrano doppi ma in realtà le persone ci stanno da sole, belle svaccate? Ecco, li adoro.
Scendo dal bus e con lo scalpo Thun sotto braccio passeggio a piedi verso la meta carrellifera.

Da lontano, però, compare qualcosa.

È una innocua vecchina, sola soletta intenta a passeggiare nel deserto urbano di Agosto.
La signora improvvisamente si ferma e, da lontano, mi guarda.
Presa dal panico di avere qualche residuo del pranzo spiaccicato in faccia mi fermo e tiro fuori lo specchietto da borsa: niente. Allora sarà qualcuno dietro di me: nessuno.
Marciapiede vuoto. Solo io e lei, come pistoleri che stanno per impallinarsi in vecchio film western.
Va bene, mi avrà riconosciuta perché conosce chissà quale mio parente o amico. Stiamo calmi molto calmi e procediamo.
La signora riprende il suo cammino.
Attraversa la strada.
Io raggiungo le strisce pedonali siamo vicinissime non c’è più scampo è la fine tutta la vita mi passa davanti.

“Signorina, che bel vestito che ha!”
“… ehm… grazie…”
“No davvero, l’ho vista camminare così svelta da lontano! Sta proprio bene, sembra una modella sa?”

Sì, è davvero un giorno strano. Un giorno perfetto.

Now-to – 5 siti con immagini per i vostri social network

immagini free social media torinoRegola n.1. Contenuto di qualità (ne riparleremo nei prossimi post, tranquilli ;-)). Regola n.2 immagini belle, accattivanti, coerenti. E possibilmente libere da copyright o diritti. Non vorrete imitare il clamoroso errore fatto da Fratelli d’Italia con la foto di Oliviero Toscani nel “caso no adozioni gay” (I ragazzi l’hanno usata perché non aveva il copyright indicato e pertanto considerata di pubblico dominio) vero?

Bene, allora questo post fa per voi.

Morto un Fotopedia se ne fa un altro. Anzi 5: per voi un elenco breve, indolore e dritto ai centri nevralgici dei vostri canali social.

– Getty Images: ha l’apposita opzione RF Royalty-Free ed è facile da navigare.

flickr immagini free social media torino– Flickr: questo database contiene moltissime belle foto ma dovete usare il tasto “richiedi licenza” per poterle riutilizzare. Esistono informazioni sulla licenza (vedi immagine a sinistra) che vi consentono di velocizzare il procedimento ricercando immagini in CC modificabili o utilizzabili a scopo commerciale.

– Google Advanced Image Search: per me il migliore quanto a varietà delle fonti (naturalmente grazie al vastissimo database Google). Tuttavia, non date per scontata la possibilità di utilizzare effettivamente come vi pare quella data foto: è buona prassi verificare sempre la fonte 😉

– Commons Wikimedia: un database con milioni di immagini. Ovvio, essendo i file caricati su Commons devono rispettare alcune regole che potete leggere qui.

– Deposit Photos: come vedete già in hp si tratta di immagini royalty-free. Il sito funziona con un meccanismo di crediti, una sorta di “moneta” con la quale potrete acquistare poi le immagini.

Le ricette imperfette – How-to: come fare il pane in casa (con la macchina)

pane how to social media torino ricetteHo cominciato a panificare quando sono andata a vivere da sola e devo dire mi si è aperto un Mondo.

Perché scartocciare il pane dal sacchetto del panettiere e mangiarselo – magari con un bel po’ di Nutella sopra – è un conto, ma ciò che viene prima per la maggior parte di noi è avvolto nel mistero, in quelle ore notturne nelle quali tiri tardi e senti il profumo provenire dal negozio del panettiere vicino casa.
Ecco, quel profumino invitante adesso si sentirà anche dalla vostra cucina, siete pronti? Non è difficile!

Ingredienti

320 ml di acqua
1 cucchiaio di olio (io ce ne metto anche due, per farlo un po’ più ciccio e buono ;-))
1 cucchiaio di sale
1 cucchiaio di zucchero
600 grammi di farina 00, 0 oppure 1
1 bustina di lievito per pane (occhio, quello per dolci NON va bene)

Unire nell’apposita vaschetta gli ingredienti sopra elencati e azionare la macchina. La mia impiega 3 ore e 30 minuti in tutto.

Consigli utili e trucchi provati da me

Attenzione: è importante che mettiate gli ingredienti nella vaschetta della macchina uno dopo l’altro proprio nell’ordine che vi ho fornito. Perché vi chiederete voi? Beh perché la parte solida, ovvero le farine, il sale, lo zucchero, eventuali altri ingredienti (ad esempio noci oppure olive) e lo lievito non devono entrare subito in contatto con la parte liquida, composta dall’acqua e dall’olio.

Poi le dosi. Devono essere molto precise, perciò vi consiglio di pesare tutto. Se vi scappano 10 ml in più di acqua dovrete conteggiare 610 grammi di farina, dopodiché non vi resterà che regolarvi a occhio, a seconda della consistenza dell’impasto: se è troppo acquoso e molle aggiungete farina, viceversa invece ammorbidite con un po’ di acqua.

Qual è la difficoltà maggiore?
All’inizio io facevo un pane compatto e dalla crosta dura, che non mi soddisfaceva per niente.
Poi ho capito: gli elementi più ostici su cui bisogna prendere la mano sono lievito e farina. Lo lievito è la chiave per un pane morbido, con la giusta alveolatura. La farina deve essere di qualità perché è la base di partenza. La 00 è la più facile da reperire (e la più economica), per la 1 dovete fare qualche ricerca ma pare sia migliore. Nella mia esperienza posso dire che, a risultato finito, le due tipologie si equivalgono.

Altra domanda che mi hanno fatto: a cosa serve lo zucchero? E se poi il pane mi diventa dolce?
Lo zucchero è indispensabile per attivare lo lievito, quindi mettete tranquilli il vostro misurino e niente paura il vostro pane risulterà salato.

Questo è tutto, ora non vi resta che provare e magari postare le foto dei vostri bei pani sulla fanpage Facebook del blog 😉

Sondaggiamo: quello che pensi a me importa :-)

I want you torino social mediaSono in vacanza in Sicilia come sapete (date un’occhiata a Facebook ;-)) e stavo pensando agli argomenti per i prossimi post.

Poi ho realizzato: perché non farli decidere a voi che mi leggete?

Quindi ecco il domandone, rullo di tamburi…

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Aperitivo al Borgo Medievale di Torino: la mia review

aperitivo Borgo Medievale Torino

Credits europaconcorsi.com

La prima impressione è subito quella di grande eleganza.
Sarà la location, una grande sala comune (ex Ristorante San Giorgio) decorata in alcuni punti con affreschi alle pareti.
Sarà l’aperitivo organizzato da Pop Up Eventi e gestito nientepopodimenoche da Gerla, con tanto di camerieri in camicia bianca e grembiule nero addetti a servire gli ospiti.
Sarà tutto questo, il dato di fatto è che la serata mi è piaciuta.
Ma vediamo con calma i dettagli.

A causa della pioggia non abbiamo potuto apprezzare a pieno il dehor all’esterno, comunque curato e illuminato in modo romantico per esaltare il castello e la vicinanza al Po.

Divani comodi e spazi altrettanto: qui non si sta coi gomiti l’uno nell’ascella dell’altro 😉
Buffet buono e ricco: roastbeef, pasta, formaggi, salumi con melone. Plus per l’insalata di mare, molto gradita e della quale vi consiglio il bis.
Età media presente all’aperitivo direi dai 25 anni in su, ergo non adatto per chi di voi ha 16 anni e magari dopo vuole ballare, per capirci.

E adesso aspetto le vostre opinioni qui o su Facebook! 🙂

Chef Rubio a Torino per Unti e Bisunti 2: io la penso così.

chef rubio torino unti e bisuntiA Torino cosa vuoi che ci sia da raccontare, solo migranti e Fiat. Non c’è niente di che da scoprire nella tradizione enogastronomica locale.
Forse è questa l’impressione che ha tratto della mia città il team di Unti e Bisunti 2, programma condotto da Chef Rubio in onda su Dmax.

Ho letto su Facebook diverse repliche astiose alla delusione dei torinesi di fronte alla puntata di lunedì scorso, ambientata a Torino per l’appunto, quindi facciamo subito una premessa: mezzo Mondo (voi lettori compresi) sa che sono reduce da un viaggio in Africa, proprio in Marocco.
Amo l’Africa per tutta una serie di ragioni e non starò qui a giustificarmi per le mie opinioni, ma sappiate che per tipologia di famiglia e di pensiero io di proclami razzisti e compagnia bella non ne ho mai fatti e non sto a sindacare su “Torino è la Casablanca d’Italia”. Certo potrei obiettare che, dopo averla vista, Casablanca è noiosa mentre Torino no, ma proseguiamo oltre.

Ho intervistato tempo fa Chef Rubio proprio per il blog e l’ho apprezzato: dalle sue parole e dalla conoscenza dei piatti tipici piemontesi mi dava l’idea di persona che capisce quanta storia ci sia, ancora poco conosciuta e da scoprire. Quanto sforzo fanno ogni giorno produttori e ristoratori per tenere viva la migliore tradizione. Quanto impegno, entusiasmo e investimento realtà come Riso Gli Aironi, COALVI, Il Frutto Permesso e molti altri piccoli locali ogni giorno mettano sul piatto.
E vi ho citato fin qui solo alcune delle belle realtà che si potrebbero elencare.
Domenica non ho visto niente di tutto questo. La puntata di Unti e Bisunti 2 di domenica scorsa? La Grande Delusione.

E non si tratta di Porta Palazzo, chè ci vado a far la spesa da quando avevo 5 anni e mio nonno era ancora vivo. No, non si tratta neanche dei patetici rapper messi lì per finta, come se a Torino, a San Salvario o all’università, li incontrassimo tutti i giorni.
No, è stato un sentimento di delusione per come è stata presentata una sola fetta della mia città – che invece di strati ne ha tanti e gusti ancor di più – e in modo così poco realistico. Constatare che se Torino – ed è vero – non ha nella sua tradizione enogastronomica rinomati cibi di strada, è stato scelto per rappresentarla un piatto, il tajine, che di strada proprio non è, anzi le famiglie marocchine lo consumano a casa, a cena.
Tra l’altro, qui si potrebbe aggiungere che in Marocco il tajine non si mangia in strada, men che meno coi passanti che ci pucciano allegramente le mani dentro. Ma passiamo oltre.

Quanti torinesi quando hanno un po’ fame pensano al tajine?
E quanti invece al kebab, al pita greco, al menu del Mac Bun, ai tranci di focaccia genovese o di pizza, ai gelati di Grom?
Ma soprattutto, chi ha mai visto, a Torino o in Piemonte che sia, sgranocchiare savoiardi in strada?
Le sole risposte a queste domande danno l’idea di come sia stata rappresentata un’intera città con una chiave culinaria distante anni luce dalla realtà vissuta, in passato come oggi.

Cos’è successo a Chef Rubio? Forse è entrato in qualche gastronomia e non sono stati abbastanza amichevoli? O forse bisognava dare alla città un’aura esotica anche se non le appartiene?
No, io penso che la risposta sia più semplice: mancanza di ricerca.
Bastava una semplice chiacchierata con un ventenne o un trentenne che vive, studia o lavora a Torino. E dire che il piatto forte di Unti e Bisunti è sempre stato il contatto umano, la leva del cibo come aggregatore di persone, la ricerca degli aspetti più veri di una città.
Qualsiasi italiano che abbia un computer e sia su Facebook può trovare moltissimi indirizzi di ristoranti di valore a Torino, posti che propongono menu squisiti tenendo vive tradizioni secolari. Qualsiasi Chef Rubio può andare in un paese più piccolo, un borgo, e scambiare due parole con donne anziane che ti fanno agnolotti da leccarsi anche i gomiti, non solo le dita delle mani. Bunet fatti in casa e bolliti e gianduiotti artigianali da morirci, da mangiare uno dietro l’altro peggio delle ciliegie. Fiere ed eventi dove si riscoprono prodotti della terra piemontese in via di estinzione. Si potevano interpellare le diverse e brave foodblogger locali (non io intendiamoci bene, ché cucino come mia nonna programma in 3D e non conosco la realtà food locale come la conosce La Gonzi, per dire) per capire chi declina la tradizione piemontese in modo nuovo, vero, apprezzato da tutti in passato come oggi, dai piemontesi come dai turisti.

Non è stato fatto nulla di tutto questo. Peccato per il programma e per Torino. Nel dubbio, mi risparmio altre possibile sòle e per le prossime puntate di Unti 2 beh… grazie, passo.

L’Africa e la fame. No, non quella a cui stai pensando.

Ma tu quanta fame hai?
Sono tornata dall’agognato viaggio in Africa con questa domanda in testa.
Combattuti a muso duro la diffidenza, la paura, i preconcetti naturali del mio essere occidentale rimane la sola domanda: quanta fame hai?
Quanta forza hai di continuare a stare in strada a vendere i tuoi prodotti, nonostante un brutto braccio ferito ricucito alla bell’e meglio? Quanta voglia hai di passare in mezzo alla folla col tuo motorino, nonostante sia pericoloso?
E se la forza non ce l’hai, ha senso continuare a cercare di ottenere un risultato?
Di questo viaggio mi resta l’assoluta mancanza di spocchia nei confronti dello sporco. I volti e i sacrifici di chi fa il doppio con la metà delle risorse.
In fondo sporcarsi le mani è il prerequisito base per raggiungere l’obiettivo.
In fondo tu quanta fame hai?

Onirika #5

Uscire da quell’ospedale è stato un sollievo.
Il Mondo fuori, però, è rimasto lo stesso.
Capelli troppo corti, pelle troppo tatuata, troppo gentile per meritare davvero la posizione di comando.
Poveri idioti.
Loro e i loro stereotipi rassicuranti.
Vorrei tornare a sedermi sotto quell’albero e godere dell’arcobaleno iridescente.
Occristo che schifo.
Stupida abitudine di camminare con la testa svagata nei miei pensieri.
Inciampata nella carcassa maleodorante di un pesce.
Risvegliata dai miei pensieri da questo tanfo.
Riportata alla realtà.
Sono vicina.
Il tizio della pescheria saprà darmi le risposte che cerco.

— Questo è il quinto episodio di un esperimento di storytelling. Continuate a seguirci per saperne di più.

Onirika #4

Smettila di urlare.
Lo so che sembro morta ma non lo sono, come te lo devo dire?
Prima di concederti quel camice bianco non ti hanno insegnato che non si urla in un pronto soccorso?
C’è gente che sta male qui, per la miseria.
Sì, c’ero arrivata anch’io: non ero in possesso di un maledetto paracadute.
Tu pensa a svegliarmi, io non sono morta.
Ecco, e già che mi salvi la vita beh trova il mio telefono.
Devo chiamarlo, mi fido solo di lui.
Solo di lui che quel giorno, seduta con la schiena contro quell’albero, ha dato inizio a tutto questo.
Comunque è tutto a posto.
Troppo spesso crediamo che cadere sia la fine.
Invece è solo l’inizio.

— Questo è il quarto episodio di un esperimento di storytelling. Continuate a seguirci per saperne di più.